mercoledì 20 febbraio 2013

Sanremo, fenomenologia di un evento di manifesta inutilità e assoluto interesse

Dopo 15 anni di astinenza volontaria ho guardato Sanremo.
Non tutto ovviamente. Ogni tanto, per preservare l’impianto uditivo, quando parlava la Littizzetto, toglievo l’audio. In altri momenti toglievo l’audio per preservare la mia integrità intellettuale. In altri lo toglievo così, per dispetto. E ridevo anche con un certo ghigno soddisfatto.
Non è che io abbia qualcosa di personale contro Sanremo o contro il Festival della Musica Italiana. Affatto. Quello che non condivido è l’idea che rappresenta. Sanremo è il più importante evento televisivo insieme a Miss Italia. Rileggete la frase e ditemi se davvero è necessario un ulteriore commento. Non è che voglia esimermi dalla critica lasciandovela ‘profumare’. E’ solo che certi concetti si spiegano nell’enunciato. Ogni anno, in questo periodo, milioni di persone preparano un divano davanti a un apparecchio televisivo e affondano in esso cognizioni, capacità critiche e raffinatezza artistica. Le lasciano proprio lì, perdute, insieme a tutti gli oggetti inutili che dimentichiamo nelle pieghe della nostra tappezzeria.
Fenomenologia di un evento televisivo che coinvolge l’interesse di tutto il paese.
Che terribile occasione persa per andare oltre quello che ci rende provinciali e incapaci di vedere oltre ciò che sistematicamente ci tiene incollati al nostro divano e ai nostri limiti. Sanremo è l’allegoria della nostra incapacità di pensare. Ci vendono comicità scadente, satira scadente, intrattenimento scadente al prezzo di nomi celebri di comprovata carriera televisiva. Chi lo sa non lo guarda, chi lo guarda non lo sa (spero, altrimenti il disastro culturale sarebbe a uno stadio terminale).
Non si abbatte questo muro, mai.
E io devo convincermi di questo perché non posso credere che davvero qualcuno rida ancora alla gag Fazio/Littizzetto, del pretino e la perpetua miscredente.  La Littizzetto che arriva in carrozza e legge una letterina sulle scale  dell’Ariston è (mi auguro) il limite massimo di ridicolismo (e in un paese come questo ce ne vuole) non per apprezzata comicità ma per incapacità creativa. Cosa significa? Cosa vuole dimostrare? Se l’è chiesto qualcuno o ce la siamo fatta scivolare addosso come tutto il resto, come l’ennesima pagliacciata che guardiamo, non capiamo e poi passa?
L’Ansa l’ha definita ‘vulcanica e sfrontata’, ma i giornalisti italiani svernano in parrocchia?
Il siparietto ‘dico una parolaccia, Fazio mi riprende, tutti ridono’, così già visto che la parte ‘tutti ridono’ è stata sostituita dal un encefalogramma piatto, è secondo per noia solo alle scenette Fazio bella di turno, rappresentazione blasfema dell’iconografia Fantozzi/signorina Silvani.
La campagna elettorale in corso ha poi fatto il resto. In un paese in cui tutti per far ridere usano la parolina magica che inizia per B e finisce per erlusconi, ignorando che ormai l’unico capace di far ridere di Silvio Berlusconi è Silvio Berlusconi, se a un certo punto la chiave dell’applauso facile non si può usare, tutti i comici o vanno in pensione o a farsi benedire. Solo che  la religione nella televisione italiana è già un bestemmia e quindi è out. Qui non si arriva al cabaret figuriamoci se possiamo permetterci di scomodare la parola satira.
E poi c’è la musica. Questo era l’anno della musica di qualità. E infatti ha vinto Mengoni.
Sarebbe facile dirvi fatevi una domanda e datevi una risposta. E invece no. Perché qualche considerazione ci sta.
Elio e le storie tese, Max Gazzè, Daniele Silvestri, Simone Cristicchi, Marta sui tubi, Raphael Gualazzi, la qualità ce l’hanno sicuramente. Altri, come la Ayane o Chiara Galiazzo la lasciano solo intravedere. In certi altri casi è superstizione, ma non scenderò nel dettaglio della critica musicale che non mi compete.
Ha vinto Mengoni dunque.
Quando ero giovane io, vivevo il festival due volte (lo so, brutta infanzia). La prima quando veniva dichiarato il vincitore, la seconda quando dopo circa un mese dalla fine della kermesse, veniva svelato l’artista che aveva venduto di più. E non era mai lo stesso. E giù polemiche perché al festival vincevano gli Avion Travel ma poi alle vendite sbancava Gigi D’Alessio.  E allora era una vittoria fasulla che non rappresentava le scelte di chi davvero acquistava musica. Oggi, vince Mengoni. Vogliamo fare insieme una stima approssimativa di chi venderà di più?
Ora si, fatevi una domanda e datevi una risposta.
Che almeno nell’apparenza, si stava meglio quando si stava peggio.
Se Mengoni vince il festival con l’appoggio del pubblico votante, battendo gli Elii spinti dalla giuria di qualità e poi vende di più,  in base a quale moralistico pulpito puntiamo il dito sugli adolescenti? Non sono forse loro gli unici fruitori di musica paganti? Non sono forse loro che scelgono comprano e decidono il mercato?
Di chi è la colpa se il mercato discografico è in mano a minorenni con scarsa cultura musicale e ormone impazzito, dei minorenni (o chi con loro) che comprano o degli adulti che scaricano? Ci poniamo mai domande che vanno oltre il nostro gongolare in una presunta superiorità culturale?
E’ imbarazzante che i ‘belli capelli’ di Mengoni e i suoi geroglifici vocali colpiscano di più della citazione colta di Rossini e Jobim fatta da Elio e di quel suo monumentale arrangiamento della ‘Canzone Mononota’. Che siano Marco (Mengoni) e Kekko (Francesco Silvestre dei Modà) i più citati su Facebook è il ritratto iperrealista di un paese che su questo tipo di pochezza culturale si crogiola perché non è abbastanza colto neanche per misurare i suoi limiti e le sue lacune.
Forse è per questo che erano quindici anni che non guardavo Sanremo, perché in fondo sono abbastanza vigliacca e certe verità mi hanno sempre fatto paura. Il peggio è che la televisione o la radio si possono spegnere. L’Italia no.  Eppure è già al buio.

mercoledì 7 novembre 2012

Potrebbe essere qualsiasi cosa. Un pezzo di romanzo già scritto. O uno che devo ancora scrivere. O un pezzo di diario, preso da un giorno sparso, di un tempo qualsiasi.




'Non lo vede nessuno, è un movimento impercettibile all’occhio degli altri. Quando il mondo si ferma. Quando la luce finisce. Quando non c’è più un motivo per ridere.
Quando dire che si crede nell’amore è una sciocchezza. Nell’amore non si crede. L’amore capita. Come a me sei capitato tu. E io ti amo e sei l’unica persona a cui abbia voglia di dirlo. Anche se lo sai già. E voglio che tu sia felice, perché niente è più bello di te quando sei felice. Ti amo per milioni di motivi diversi e se fossi milioni di volte diverso ti amerei lo stesso. Perché sono solo tre le cose che di te non cambierei mai. E ho paura. Ho  paura perché ti amo così tanto che se non sarai tu non vorrò più amare nessun altro. E se proprio devi, non amare una qualsiasi. Innamorati di una donna intelligente. Di qualcuno che sappia leggere quello che non dici. Non innamorarti di qualcuno che ti trova bello. Innamorati di qualcuno che sappia vedere la tua follia e che sappia assecondarla. Non farti mettere in gabbia, non lasciare che ti cambi. Ti prego non innamorarti di qualcuno che non sappia amarti. Non sprecare non rifiutare non rinunciare a tutto l’amore che sarei stata capace di darti per qualcuno che non merita di amarti.
Ho visto tanti vivere pezzi di vita che avrei dovuto vivere io ma mai ho odiato quello che è rimasto a me. L’unico rimpianto che ho, è l’amore sprecato.' 


martedì 6 novembre 2012

Certe domande.




Recentemente mi è capitata questa domanda, 'perché lavorare nel mondo della cultura? 

Certe risposte sono più imbarazzanti delle domande. Certe risposte ti accartocciano nei tuoi paradossi e difficilmente ne vieni fuori senza ammettere quelle due o tre cose che, potenzialmente, potrebbero rovinarti.

Intanto, questo mestiere lo farei anche gratis. Lo diceva anche il Maestro Montanelli, si stupiva anzi che, addirittura, lo pagassero. Tutti quei romanzetti bohemien intorno al Mestiere pagato da fame, non dicono la verità. Almeno, non tutta. C’è qualcosa che nutre in questo mestiere dello stesso cibo con cui si lavora, qualcosa che ha un valore e non un prezzo. Parlare di cultura è già abbastanza inebriante. Sazia.

Eppure la Cultura è un equivoco. Un fraintendimento. Non contiene tutto quello che ci circonda. Ma tutto quello che ci circonda è cultura. La differenza è sottile, un gesto, un suono. E’ l’ufficiale tedesco che salva la vita a Szpilman ne ‘Il Pianista’ di Polanski, dopo averlo sentito suonare. E’ il sopracciglio alzato di Simon Cowell, quando Susan Boyle intona le prime note di ‘I Dreamed a Dream’,  sul palco di Britain's Got Talent. A volte, è impercettibile. Come Joshua Bell e il suo Stradivari nella metropolitana di Washington, passando l’hanno sentito suonare più di mille persone ma solo una ha riconosciuto uno dei più grandi musicisti del mondo.


La Cultura non è uno status. Non è un traguardo. Non è vanto. La Cultura non è sapere. La Cultura è capire. E’ uno strumento. Un mezzo. 
E’ la differenza tra abitare il mondo e possederlo.